Perché andiamo a un vernissage? Ci ho pensato mentre osservavo il pubblico al vernissage di Zeitwille l’altro giorno. Era il tipico mix di persone che ti aspetti di trovare a un vernissage. Vestiti bene, vestiti meno bene, grandi, giovani (più giovani del solito stavolta però) e un giornalista o due prendendo appunti davanti alle opere. Ma a parte i giornalisti, che ovviamente sono lì per lavoro, quali sono le motivazioni delle persone che vengono alle aperture di mostre? Sono amici dell’artista o dei genitori dell’artista? Per essere visti in un posto e un evento di un certo livello? Perché l’aperitivo è gratis? Perché si trovavano per caso in zona quella sera? O perché nutrono un genuino interesse per arte?

 

Suppongo che sia un po’ di tutto ciò. C’è chi viene per il prosecco, altri perché sono amici dell’ artista o amici degli amici del gallerista, ancora altri perché gli fa piacere essere visti a eventi del genere o semplicemente perché stavano facendo una passeggiata in zona. Sicuramente c’è anche chi viene perché segue la scena dell’arte contemporanea.

Tutti questi sono motivi legittimi per andare a un vernissage. Io non sto giudicando nessuno, non è quello lo scopo. Voglio invece arrivare ad un altro punto: Credo che ci sia un ulteriore motivo comune per tutti noi che andiamo ai vernissages. Credo che abbiamo tutti bisogno d’arte, anzi, bramiamo l’arte. Aspiriamo ad un tipo di comunicazione diversa, più sottile, più stimolante, meno banale rispetto a tutta l’informazione che ci arriva quotidianamente attraverso i vari media. Vorremmo quel luccichio che ci arriva addosso e illumina la nostra vita. Credo che tutti desideriamo ardentemente un’esperienza artistica forte, forte come abbiamo letto che può essere forte, impressionante come dicono che può essere impressionante, che ci provochi emozioni che, in fondo, crediamo che l’arte sia capace di provocare. Dunque, qualunque sia il pretesto immediato, quando abbiamo la possibilità, andiamo a un vernissage, o a una mostra, o a visitare una galleria.

Purtroppo, tanti artisti hanno perso la capacità di comunicare col pubblico. Ho pensato tanto a come e perché quel dialogo sia svanito. Ad un certo punto gli artisti sembrano essersi ritirati in un dialogo interno, circolare, nel quale pochi altri, fatta eccezione per gli artisti stessi, partecipano.
L’arte provocatoria, spesso brutta, presentata dai media come l’unica cosa che la scena dell’arte contemporanea fosse in grado di produrre è stata forse il colpo mortale per il dialogo diretto fra artisti e pubblico. Gli artisti stessi hanno fatto poco per contrastare questa impressione, anche se in gran parte, producevano e producono, arte piacevole.

Anche il pubblico è colpevole di aver perso la comunicazione diretta con gli artisti. Nella nostra ricerca di arte emotiva, non smettiamo mai di sperare di trovare IL QUADRO, e rimaniamo delusi da tutto il resto.

Peccato che l’arte, in gran parte, non sia sempre così stravolgente. Sperare di trovare quel quadro unico che ti cambia la vita a un vernissage qualsiasi, è un po’ come sperare che alla mensa del lavoro troverai un giorno un piatto stellato Michelin.

Dobbiamo però comunque mangiare, con o senza le stelle Michelin, ed è solo esponendoci a una moltitudine di sapori che scopriremo cosa ci piace e cosa non ci piace. Anche l’arte è così. La devi consumare, e consumare tanto, per capire cosa soddisfa davvero il tuo palato.
Sono convinta che tutti abbiamo bisogno d’arte, non nello stesso modo immediato in cui ci serve il cibo, ma comunque ci serve quel modo alternativo di comunicare. E più gallerie visitiamo, più aumenta la possibilità un giorno di trovarci di fronte a quel quadro che parla direttamente a noi, quel mix di acrilico, olio, tela e colori mozzafiato che fa sparire il mondo, girare la testa e ci toglie le parole per la forza delle emozioni che esprime.
Fino a quel giorno – buon vernissage.

 

di Eva-Kristin Urestad Pedersen

 


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